sabato 23 gennaio 2016

Cronache di una... spedizione!

Svegliarsi presto comunque. Gli ultimi preparativi indispensabili, prima di uscire di casa per andare a spedire una busta che considero importante. “Non ne verrà fuori niente”, continuo a ripetermelo. Ma non posso fare a meno di dirmi anche che: “Non provarci porterebbe a niente di sicuro”.
Perciò scorro il testo veloce sul monitor per le ultimissime, ennesime, puntigliose correzioni. Oddio… puntigliose. Si fa per dire. Anche se di scrupolo ce ne ho messo tanto, qualcosa è sfuggito di sicuro. Scrivo il curriculum letterario che serve, compilo la scheda di iscrizione. È tutto pronto per la stampa. Mi sono svegliata con il timore di non fare in tempo a fare tutto e, anche se sono appena le dieci e trenta e l’ufficio postale non chiuderà prima di due ore, non posso fare a meno di conservare quel pizzico di ansia; che quasi mi fa scordare la busta sopra il tavolo della cucina. Vabbè, non è grave. Avrei fatto in tempo a tornare indietro a prenderla. Il dramma è che detesto contrattempi di questo tipo. Per fortuna, allora, riesco a salire in macchina con la mia busta stretta in mano.
Le concedo di sedermi accanto. Pochi minuti e ognuna se ne dovrà andare per la propria strada. Delle due, solo io rimarrò in impaziente attesa di avere sue notizie.
Quei momenti in cui il tempo di un semaforo rosso sembra sempre troppo lungo. Mi consola poco, anzi pochissimo, che il cd sia arrivato alla traccia che preferisco. Ho deciso che lo lascerò andare da solo, senza interferire minimamente nell’ordine di esecuzione, fino a che sarò riuscita a sentire almeno una volta tutte le tredici canzoni che contiene. Solo così non sarà stato un acquisto fatto invano.
Scatta il verde. Il parcheggio è poco lontano. Io e la Busta scendiamo dalla macchina con la consapevolezza di dover fare tappa alla copisteria e la convinzione, poi rivelatasi errata, di riuscire a fare presto. Apro la porta trasparente, mentre un signore sta dettando dei codici fiscali. La signora al computer mi dà l’impressione di essere alquanto preoccupata della fila di persone che sta aumentando lentamente. Lo spazio per l’attesa è quel che è. Nonostante tutto, riesce a mantenere un atteggiamento professionale e a scrivere tutto ciò che serve, fino all’ultima lettera. Io mi sento un po’ meno tranquilla. Rischio di fare tardi.
Sto già premeditando una sclerata (a trovare il coraggio, potrebbe essere una soluzione), quando, rivolta a me, dice: “In cosa posso aiutarti?”.
“Dovrei rilegare dei fogli”, appoggio sul bancone il mio plico, un po’ in imbarazzo per il fatto che tutti possano leggere di che cosa si tratta. Bè, non tutto; tutto. Il titolo, però, è in bella vista. Panico.
“Puoi ripassare tra un quarto d’ora?”.
Nodo alla gola. Che faccio… sclero, o non sclero?
Non sclero. Non solo la timidezza mi impedisce di farlo, ma mi ricordo di dover fare anche altro all’ufficio postale. Posso andare a sbrigare le mie incombenze ordinarie e tornare a prendere tutto appena avrò finito. Posso farcela. Devo farcela.
Mentre cammino in su per la via, cerco di ignorare il freddo. Ma, cavoli, quant’è pungente! Appena avrò sistemato ogni cosa, vado al bar a prendere qualcosa di caldo.
Dentro l’ufficio postale, trovo la fortuna dalla mia. Ho due persone davanti. Magari, sempre!
Con la ragazza dietro il bancone ci conosciamo. È una sorta di ‘da quanto tempo è, che non ci vediamo?’. Più sintetica delle note biografiche di un retro di copertina, le racconto i miei ultimi anni di vita, da quando ci siamo perse di vista. Giusto lo stretto indispensabile, poi torno dalla mia Busta che mi sta aspettando.
Il tragitto all’insù, anche se insieme, è sempre freddissimo. Rientro nell’ufficio postale con la speranza che nessuno mi prenda per pazza. Due volte, in meno di venti minuti.
P 18. È il numero con cui prenoto la mia spedizione. Il biglietto lo metto nel portafogli, come faccio sempre quando voglio conservare una testimonianza di qualcosa che è successo. Come se le parole dentro alla busta, rimaste anche a casa dentro il computer, non fossero più che sufficienti. Quindici minuti dopo, sono di nuovo fuori. Manca un quarto a mezzogiorno. Qualcosa al bar ci sta, perché no?
Ho la netta convinzione di vivere giornate incentrate su una parola. Quella di oggi deve essere: incontri. In realtà, più che un incontro, è una nuova conoscenza. Qualcuno che inizia a parlarmi, senza che io lo stia nemmeno guardando. Pretende la mia attenzione.
Mi capita spesso. Non spessissimo, ma ne ho di ricordi del genere. Non riesco a evitare di sorridere. Quei momenti che potrebbero diventare parole su carta, in meno di un attimo. Quindi, che faccio? Chiudo qui, per ora. Questa è di certo un’altra storia.

Alla prossima! 

sabato 9 gennaio 2016

Ascoltando il mondo intorno...

La porta aperta, di un ristorante ancora chiuso. Tre ragazzi lì davanti, chiacchiere vivaci e una specie di ‘pausa sigaretta’. Giovanissimi. Forse vent’anni, o poco più. Per tutte le volte in cui mi capita ancora di ritrovarmi a dover rispondere a domande tipo: “Come va la scuola?”; direi che stabilire l’età di qualcuno dopo una semplice occhiata è tutto; fuorché facile. Ascoltare il mondo intorno, mentre a ogni passo mi avvicino un po’ di più alla macchina parcheggiata in fondo alla strada. Uno di loro è agitato. Lo vedo gesticolare, prima di sentire il suo tono di voce sostenuto. Indossa un paio di pantaloni color cachi. Non belli, ma in grado di dare nell’occhio. “Io gliel’ho detto”, lo sento gridare. “Se sta con me, sta con me e basta. Non esiste che esce con altri”. Gesticola in maniera importante. So che non dovrei farlo, ma mi ritrovo a rallentare un po’. “Per le altre non mi è mai importato niente, ma per lei è diverso. Non voglio che veda altri”. Mi fa sorridere. “Io gliel’ho detto”, ripete. E mi ritrovo a domandarmi perché in una coppia che, stando a quel poco che c’è di intuibile, dovrebbe essere appena nata, debba insinuarsi una stranezza del genere. Una debolezza del genere. Un difetto del genere, mi sentirei di dire. Non dovrebbe essere logico? Normale? Come mai un ragazzo giovanissimo teme di dover dividere la sua Lei con qualcun altro? Mi immagino se un giorno dovessero essere dette a me certe parole. Un “Tu sei mia, mia e basta”. Non vorrei mai che fosse per l’intensione di placare un dubbio. Vorrei si trattasse di una sottolineatura. Di un colpo di evidenziatore su qualcosa di ovvio. Di una freccia lampeggiante, a indicare una strada percorribile in una sola maniera. Penso allora a un’altra volta, in cui mi è capitato di ritrovarmi a discutere con una persona per il semplice fatto di aver detto che in una coppia considero importante (fondamentale) il fatto di essere l’uno un po’ ‘proprietà’ dell’altro. Il mio ragazzo, la mia ragazza. Mia moglie, mio marito. È quel ‘mio’ e quel ‘mia’, che rendono il concetto speciale. L’altra parte sosteneva di non poter privare una persona della propria individualità, che ciò avrebbe voluto dire considerarla un oggetto. Ho sentito le orecchie chiudersi di colpo. L’amore. Quello vero. Che sia folle. Che ci faccia sentire ‘proprietari’ di qualcosa che non siamo disposti a condividere. Di qualcuno che non siamo disposti a condividere. Di cui non possiamo fare a meno, come del bene più prezioso che abbiamo. Quel qualcuno per cui niente è la stessa cosa, rispetto a ciò che è già il vissuto e, magari, rispetto anche a ciò che potrebbe essere l'immaginato. Ecco. Perdere la testa in questo modo è ciò che in fondo cerco; andando per la mia strada. Esiste qualcosa di più bello? Esiste altro, per cui valga la pena di barattare la propria indipendenza? Io dico di no!